The Strokes - The New Abnormal


The Strokes - The new abnormal

Bello come quegli anni, a trent’anni, quando nelle notti alcoliche nei locali passava “Last Nite” o “Someday”. Singolacci del brillantissimo esordio di una band newyorkese.
Hard to explain, nel senso di singolo di quel mitico album che era “Is This it” ma anche nel senso letterale per questo nuovo disco che è anche molto imperfetto, come le scelte che facevi in quegli anni sotto effetto alcolico. 
Cioè, in alcuni momenti “The New Abnormal” mi riporta ai ricordi entusiasmanti di una band fondamentale di quel periodo, vedi il meraviglioso opener “The Adults are Talking” o la più tranquilla “Selfless” che segue.
In altri momenti però vorrei non averlo mai sentito, tipo in “Bad Decisions”, nomen omen, che cita palesemente “Dancing with myself” di Billy Idol.
Citazioni (non plagi) che gli Strokes hanno sempre amato e qui inseriscono in maniera abbondante. A iniziare dalla copertina, che raffigura “Bird on money” di Basquiat, per passare a un’ampia presenza della loro amatissima città (Basquiat naturalmente era newyorchese) che va da “Brooklyn Bridge to Chorus” per arrivare a “Ode to the Mets”, che chiude l’album e che cita i Mets una delle squadre di baseball della città, di cui Casablancas è tifoso.

Citazione anche in linea generale con una certa atmosfera che richiama quel (orrendo) periodo che sono stati gli 80’s. Quindi synth quasi perennemente presenti e in grande spolvero come nel singolo “At the door” nella già citata “Brooklyn Bridge to Chorus”, o in “Eternal Summer” che ricorda “The Ghost in you” dei The Psychedelic Furs. Altra citazione. E a me la musica anni ottanta continua a non piacermi. Bah.

Gusti personali a parte, che come sempre sono molto soggettivi, gli Strokes trovano con questo disco, attesissimo, una nuova via e allo stesso tempo le vecchie care abitudini. Una certa bravura nel tirar fuori riff incisivi (mi piace molto “Why Are Sundays So Depressing?”) e una certa capacità di raccontare gli stati d’animo e le situazioni melanconiche, che con la voce di Casablancas esplodono in tutta la loro potenza.
Solo nove canzoni, per soli quarantacinque minuti, con un piccolo rallentamento di intensità nel finale, come in “Not the same anymore”, struggente ma dannatamente lunga, per un disco che non solo ci riporta una band rinnovata ma anche un produttore, Rick Rubin, che ha ritrovato la magia dopo una piccola défaillance. Ma con questi eterni giovanotti è riuscito nell’impresa.

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